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C’è invece chi cresce tra i suoi tentacoli, respirando il suo alito soffocante e sopravvivendo alla sua ferocia. Questi siamo noi, i dittatoriati. Siamo nati oppressi e cresciuti impauriti. Oggi siamo ribelli”: si apre con queste forti parole il libro “La rivolta dei dittatoriati” (edizioni Mesogea, 144 pagine), scritto da Ouejdane Mejri e Afef Hagi, entrambe tunisine che da anni vivono in Italia, per raccontare la rivoluzione tunisina. Le due autrici sono state recentemente ospiti del Centro Culturale Italiano di Tunisi per presentare il proprio libro. Siamo riusciti ad intervistare Ouejdane Mejri, nata e cresciuta in Tunisia, dove ha frequentato l’università fino alla laurea. A 21 anni è partita per l’Italia per continuare i suoi studi specialistici in Informatica; ora insegna al Politecnico di Milano ed è impegnata nella società civile italiana come presidente dell’associazione PONTES dei tunisini in Italia: “Il mio è stato un percorso di migrazione - spiega - che nasce per perseguire i miei sogni e che si è concretizzato anche con la nascita di una mia nuova famiglia in Italia. I miei genitori sono tuttora a Tunisi laddove sono cresciuta. In questi quartieri centrali della capitale, tra Lafayette e Bab Souika, un’infanzia impregnata dai rumori delle viuzze di El Halfaouine, spesso con un libro in mano per viaggiare tra le parole degli autori più variegati. Una vita da giovane tunisina come lo può essere quella di una ragazza che sogna di scoprire il mondo”. Un racconto che “è anche una storia di madri e di figlie. Di donne libere”, come si può leggere nella premessa, in cui le autrici parlano dell’importanza della figura delle loro madri, che le hanno spinte verso la ricerca della libertà: “Mia madre mi fissa con quel suo sguardo ardente e nemmeno la schermata di Skype riesce ad attenuarlo. La sua voce mi giunge limpida, mi rimprovera senza mezzi termini «ti ho tenuto per mano quando avevi quattro anni mentre insieme partecipavamo alle manifestazioni del 1983. Ora, tu non ci sei per prendermi per mano e farmi partecipare alle manifestazioni del 2010». Sì, mamma. Non vivo più in Tunisia. Non ho potuto in quei giorni esserti vicina e tenerti la mano in piazza per urlare insieme la nostra voglia di libertà e di dignità. Ma c’ero…insieme a voi, c’ero, non solo con la mente, con il cuore, ma anche con il corpo. Un corpo trascurato e in tensione, appiccicato al computer giorno e notte. E per dirti che c’ero, scrivo questo libro” (Afef). “Un libro che dice parole che a quel tempo non hai mai potuto pronunciare, davanti al tuo microfono alla radio. Tranne la volta in cui mi costarono la paura di perderti. Non hai mai voluto lasciare la nostra Tunisia eppure hai sognato per me un mondo libero e mi hai allontanato dal tuo grembo dicendomi «Vai…». E poi, eri lì in prima linea, pazza di libertà. Allora ho capito che non avevi mai avuto paura per te, hai sempre solo e soltanto avuto paura per noi”. (Ouejdane). Partiamo dal titolo del libro: la rivolta dei “dittatoriati”. Potete spiegarci il significato di questo neologismo? “Con Afef ci siamo poste subito dopo il 14 gennaio 2011 la domanda seguente “perché è scoppiata la rivolta in Tunisia? perché ora e non prima?”. Entrambe abbiamo vissuto in Tunisia per vent’anni e sapevamo esattamente cosa volesse dire crescere, andare a scuola e poi all’università sotto la dittatura. Cosa volesse dire stare attenti a ciò che si dice e ciò che si pensa, a mantenere le distanza dalla polizia che controllava, puniva e reprimeva. Cosa volesse dire vedere il nostro Paese derubato dal clan dei Trabelsi per anni. Ed è proprio perché conoscevamo quel muro di paura che fermava la gente comune, che ci siamo chieste come mai essa ha iniziato a protestare contro il regime in quel dicembre di tre anni fa. Nel libro tentiamo di esplorare quindi la storia dei “dittatoriati”, di quella gente che non è stata oppositrice dichiarata del regime e che non è stata neanche tra i costruttori di quel regime. Noi, dittatoriati, non eravamo vittime dirette della repressione fisica, ma siamo quelli che hanno vissuto sotto la dittatura, in silenzio, e un giorno quel silenzio è finito. Cos’è che vi ha spinto a voler raccontare nel libro questa esperienza di “dittatoriati”? C’entra la lacerazione di cui parlate, il fatto che eravate in Italia mentre cominciavano le prime manifestazioni contro Ben Alì e quindi impossibilitate a condividere quei momenti rischiosi con i vostri concittadini? Dal vostro ultimo viaggio in Tunisia, vi aspettavate qualcosa di simile? “Abbiamo sentito il bisogno di scrivere perché dopo il 14 gennaio 2014 potevamo farlo: con la caduta di Ben Ali, il dittatoriato ha acquisito se non altro la libertà di esprimersi. Noi come ricercatrici abbiamo sentito il bisogno imminente di raccontare come fosse la vita sotto una dittatura moderna: quella nella quale siamo cresciute non era il fascismo degli anni 30, ma una dittatura degli anni ‘90 e 2000. Come i sociologi occidentali ci avevano definito, negli scritti precedenti la rivoluzione, non rispecchiava ciò che sentivamo di essere, allora abbiamo deciso di fare un lavoro di ricerca, di interviste, di raccolta dati e di analisi scrupolosa, oltre la nostra esperienza personale. Era un bisogno molto forte di prendere la parola e proporre una visione di noi stessi, i dittatoriati. L’assenza delle migranti che siamo è sicuramente determinante in questo racconto: eravamo lacerate tra qui e lì e spesso quella distanza spariva con la scrittura, mentre ci tuffavamo nel nostro passato. Abbiamo invece sottolineato quella distanza quando abbiamo raccontato i giorni della rivolta con l’occhio di chi è lontano”. Si potrebbe pensare che, a dispetto dei connazionali rimasti in patria, eravate in un certo senso delle “privilegiate” essendo in Italia. Eppure, come si legge in diversi passi del libro, in realtà sentivate ancora la morsa del regime e la paura che, ad un vostro passo sbagliato, potesse succedere qualcosa ai vostri familiari. “Per chi decideva di non lavorare per il regime c’erano due vie uniche: quella dell’opposizione dichiarata, oppure l’essere un dittatoriato silenzioso. Il dittatoriato che poi parte a vivere all’estero deve rispettare questa regola del silenzio: se decide di esprimersi contro la dittatura e di combatterla diventerà un oppositore e ne pagherà le conseguenze. Le persecuzioni del regime di Ben Ali arrivavano anche all’estero, bastava semplicemente non rinnovare un passaporto tunisino a un migrante per impedirgli di avere una vita laddove stava e di tornare in Tunisia. Non eravamo libere di parlare perché vivevamo in Italia: sapevamo perfettamente che mettersi contro il regime significava non poter più ritornare in Tunisia, non rivedere le nostre famiglie. Ritorsioni e altro erano conseguenze “naturali” per chi si opponeva al regime. Sinceramente, non mi sentivo più libera in Italia di quanto non lo fossi in Tunisia, ero comunque dittatoriata”. Nel primo capitolo scrivete: “Da nessuna parte nei libri di storia o di educazione civica si descriveva cosa avessero portato la sua democrazia e libertà, parole senza senso per un giovane tunisino che cresceva in tutt’altro mondo e cominciava a farsi delle domande”. Dopo la rivoluzione, in questi anni di un lungo processo che ha portato alla nascita della nuova Costituzione, queste due parole hanno un senso per il popolo tunisino? “Le parole “libertà” e “democrazia” sono state abusate dai discorsi del vecchio regime perdendo ogni loro senso perché si confrontavano con una realtà che non era libera o democratica. Erano le parole della propaganda del regime. Oggi ci stiamo pian piano riappropriando del loro significato. Probabilmente, con il fatto di vivere la libertà e di esercitare la democrazia queste parole non sono più parole ma atti”. Scrivete: “Sicuramente la gran parte di noi non era disobbediente, tuttavia non era neppure così obbediente come sperava e voleva far credere il regime. Anche noi avevamo il nostro simulacro, una finzione, un’immagine illusoria da rimandare alla propaganda del potere”. Potete fare esempi di come “eravate combattuti tra le bugie del regime e il sentimento di repressione” che cresceva in voi? “Nel libro raccontiamo di questi due spazi nei quali vivevamo durante la dittatura. Da una parte uno spazio costruito dalla propaganda del regime che imponeva un’immagine di noi stessi, della nostra società e della sfera politica basati sulla farsa della democrazia di Ben Ali, una cartolina finta che costruiva quotidianamente il partito al potere e che dovevamo guardare senza possibilità di critica. Dall’altra parte lo spazio da vivere nostro, nel quale il controllo della polizia era costante, nel quale la corruzione dei membri del partito e l’abuso di potere del Clan dei Trablesi erano onnipresenti. La sfida principale era vivere tra questi due spazi, sovrapposti ma contraddittori, nella quotidianità, consapevoli del torto ma silenziosi per non rischiare ritorsioni. Ognuno di noi ha sviluppato i suoi meccanismi di difesa e di soppravvivenza. Ci si difendeva dal diventare pazzi dinanzi a questa doppia realtà e questi doppi messaggi. “Sei libero, ma non essere libero” erano i predicati di questa logica che poteva farci impazzire”. Ampio spazio del libro è dedicato ai social network e al cyber attivismo, che hanno contribuito alla rivoluzione, i cosiddetti “avatar rivoluzionari”. Servono ancora? “Gli avatar rivoluzionari non sono solo i cyber attivisti, anzi nei giorni della rivolta una grande parte dei blogger attivisti erano in prigione o sotto stretto controllo della polizia. Questo fenomeno di coesione sociale attorno a una lotta che descriviamo con il concetto dell’ “avatar rivoluzionario” non solo è sopravissuta alla fase di rivolta, ma è stata molto utile nella fase di costitutionalizzazione. Il fatto che i social media siano utilizzati come spazi di aggregazione di persone e comunità attorno a una lotta è sicuramente una delle grandi conquiste del popolo tunisino: siamo passati dall’essere individui silenti e separati a cittadini che discutono mentre sono connessi. Questa trasformazione si è fatta in rete, su facebook, e si sta facendo anche negli spazi dei partiti politici e nelle associazioni e gruppi della società civile. Gli “avatar rivoluzionati” hanno dimostrato di essere una realtà vincente e credo che sarà ancora presente per i prossimi anni, magari con nuove forme. E’ tutto tra le mani dei cittadini”. Avete definito la società civile di prima come “sequestrata”. Un aspetto interessante del post rivoluzione, in effetti, è stato una sorta di “risveglio” della società civile, e un boom dell’associazionismo. “La società civile tunisina si è liberata dal controllo della dittatura e oggi sta giocando un ruolo essenziale per la transizione democratica. I cittadini tramite le nuove associazioni di carattere civile hanno potuto partecipare al controllo delle istanze costitutive, ma anche promuovere nuove azioni e progetti per lo sviluppo economico e sociale della Tunisia. In questo boom delle associazioni ne sono nate molte di stampo religioso che fanno azioni di proselitismo e che preoccupano con il loro numero (stimate al 45% del numero totale delle associazioni) e la poca trasparenza delle loro attività, c’è chi teme la costruzione di una nuova forma di controllo delle menti e delle libertà. Staremo a vedere come evolverà questa realtà civile, che rappresenta un vero contro-potere alla politica tradizionale, un equilibrio essenziale in una democrazia”. Dalla pubblicazione del libro ad oggi ci sono stati altri cambiamenti: nuova Costituzione, tentativi di attentati… “La rivoluzione è un cammino nel quale si stanno incontrando persone che costruiscono e altre che distruggono. Credo che sia cruciale tenere in mente da dove veniamo, come è stata la nostra vita prima di quel giorno di dicembre 2010 in cui tutto iniziò a Sidi Bouzid. Sarà solo con uno sguardo verso il passato che sapremo cosa costruire per il futuro. Mai più dittatoriati…” Giada Frana Ouejdane Mejri e Afef Haji durante la presentazione a Tunisi
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